Un altro rapporto debito/PIL è possibile (2)

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Sandro Brusco

Facendo seguito al primo intervento, in questo post spieghiamo perché, tra le altre cose, è realistico pensare di poter ottenere introiti straordinari per 35 miliardi l'anno dal 2013 al 2018. In effetti, a nostro avviso, questo dovrebbe essere l'obiettivo minimo. Ci sono notevoli incertezze sulla valutazione del patrimonio pubblico ed è probabilmente possibile andare anche oltre questi valori.

L'obiettivo durante la prossima legislatura deve essere quello di aggredire con la massima forza possibile il debito pubblico e la pressione fiscale. Occorre porsi l'obiettivo del raggiungimento del rapporto debito/PIL al 100% come obiettivo minimale, insistendo in particolare nel massimizzare le dismissioni di immobili attualmente usati in modo inefficiente. Per questo ci sarà bisogno di una forte volontà politica. Se il prossimo parlamento sarà pieno di gente che pensa che dismettere e privatizzare sul serio, non per finta, significa ''svendere ai predoni della tripla A'', o che ogni riduzione della spesa sia un atto di ''macelleria sociale'' allora è ovvio che non si andrà da nessuna parte. Vedremo alle prossime elezioni quanti voti le forze che hanno favorito il declino (e con tutta evidenza vogliono continuarlo) prenderanno, e quanti invece il declino sceglieranno di fermarlo.

Problemi politici a parte, ci sono legittime domande sulla fattibilità economica di un simile programma, che è bene non nascondere. Ne poniamo in evidenza tre.

1) Lo scenario presentato è uno scenario di politica fiscale cosidetta “restrittiva” in cui (in aggiunta ai provvedimenti già presi dal governo Monti) la spesa pubblica primaria viene ridotta più delle tasse, per un ammontare netto dello 0,17% del PIL per anno per 5 anni. Tale politica di bilancio dovrebbe, secondo la vulgata “keynesiana” dominante, ostacolare la ripresa, riducendo nel breve periodo il tasso di crescita del PIL reale.

2) Reperire 210 miliardi addizionali nell'arco di 6 anni mediante privatizzazioni, dismissioni e altre operazioni straordinarie può non essere affatto facile. In  particolare, è ragionevole pensare che il patrimonio pubblico contenga attivi effettivamente liquidabili per tali quantità? Le fallite esperienze tremontiane con la cartolarizzazione degli immobili pubblici dovrebbe fungere da monito.

3) Mentre tagliare le tasse è politicamente facile (è difficile farlo bene, massimizzando l'impatto positivo sulla crescita, ma questo è altro discorso), tagliare la spesa lo è molto meno. Occorre pertanto mostrare in dettaglio che è possibile tagliare 5 punti di spesa primaria nell'arco di 5 anni senza provocare reazioni politiche e sociali eccessive.

Una risposta completa a queste domande richiede molto maggior spazio di quanto ho deciso di concedermi oggi: i dettagli delle risposte verranno date nelle prossime settimane man mano che svilupperemo in dettaglio il programma. Qui risponderemo brevemente al primo punto, e per non essere troppo evasivi daremo anche una risposta sommaria al secondo. La risposta al terzo punto è in realtà più politica che economica. Individuare tagli alla spesa pari al 5% del PIL che non pratichino alcuna “macelleria sociale” (anzi tutto il contrario) è perfettamente possibile (se ne è parlato in vari posti, e in particolare in questa sequenza di articoli: uno, due, tre) ma la questione di fondo è se risulterà possibile infrangere le resistenze che le varie categorie influenzate dai tagli opporranno. Qui un grosso aiuto dovrà venire dal fatto che, contestualmente alla diminuzione della spesa, ci sarà una diminuzione delle tasse. Suggerimenti addizionali si trovano nel post di Aldo Lanfranconi, che compara la spesa pubblica italiana con quella tedesca. e fornisce una stima di quanto potrebbe essere fatto rendendo la nostra spesa almeno altrettanto efficiente quanto quella di Berlino. Per andare oltre occorrono scelte tutte politiche su quali spese tagliare (non riqualificare: tagliare, dato che praticamente quasi tutta la spesa pubblica italiana deve essere riqualificata).

Riguardo l'impatto aggregato della manovra restrittiva la prima cosa da osservare è che essa è di dimensioni molto modeste e certo non comparabile alla ''cura da cavallo'' che l'economia italiana ha dovuto subire tra il 2011 e il 2012. La sequenza di provvedimenti approvati nella seconda metà del 2011 ha aumentato la pressione fiscale di più di due punti di PIL in pochi mesi, aggiungendo inoltre a tale manovra alcuni modesti tagli alla spesa. L'inasprimento della tassazione ha certamente contribuito al calo del PIL, anche se non è affatto chiaro che ne sia stato la causa principale: la restrizione creditizia in atto dal secondo semestre del 2011 ha avuto un effetto molto maggiore e infatti la caduta del PIL precede l’arrivo delle misure restrittive adottate dal governo Monti. Quella che stiamo proponendo è una riduzione di 5 punti sia della spesa primaria sia delle imposte, con un profilo leggermente più accelerato (5 anni anziché 6) per la riduzione della spesa. Questo ammonta quindi, in ogni dato anno, ad una riduzione netta della “domanda pubblica” (ossia: spesa - tasse) pari allo 0,17% del PIL Una cosa assai più blanda ma molto più sistematica e annunciata, quindi più efficace. Poiché non è ragionevole concepire che un arco di tempo di cinque o sei anni possa ancora legittimamente essere considerato il “breve periodo” di “keynesiana” memoria – in cui il livello dell’output, essendo la capacità produttiva totalmente fissa, dipende puramente dalla domanda esogena – per valutare gli effetti aggregati dell’operazione che stiamo proponendo occorre considerare non tanto la pura riduzione di “domanda pubblica” che essa implica ma anche, e soprattutto, gli incentivi ad una diversa utilizzazione delle risorse che dovrebbe indurre. Vale la pena sottolineare anche che, come conseguenza della riduzione del debito in essere, una parte sostanziale (circa il 15-20%) della minore spesa pubblica totale verrebbe da una ridotta spesa per interessi, ossia da un calo delle rendite finanziarie; questo permetterebbe ulteriori riduzioni future di imposte sul reddito delle famiglie con un effetto quindi “espansivo” sulla domanda aggregata.

Sia l’evidenza storica che la teoria economica suggeriscono che l’effetto netto di un’azione di politica economica così articolata (graduale e annunciata riduzione spesa + riduzione imposte + riduzione debito e interessi sul debito) dovrebbe essere positivo sulla crescita. Questo è particolarmente vero nel nostro caso sia per il tipo di spesa pubblica (altamente improduttiva o, più generalmente, parassitica) che si intende tagliare sia perché i tagli permanenti alle tasse dovrebbero avere un effetto più espansivo di quello (opposto) di un taglio alla spesa. Non solo: oltre ad aumentare permanentemente il reddito disponibile alle famiglie, la nostra proposta prevede anche la vendita a famiglie e imprese di beni produttivi oggi malamente utilizzati in cambio di debito pubblico. Detto altrimenti: la vendita di beni capitali, siano essi immobili o imprese, oggi mal amministrati dalla classe politica dovrebbe favorire una migliore allocazione delle risorse, un aumento della ricchezza privata e un aumento della domanda di consumi.

Inoltre la manovra di dismissioni più miglioramento dell'avanzo primario dovrebbe avere un effetto positivo, se ritenuta credibile, sul valore di mercato del debito pubblico. Questo dovrebbe sia aumentare la ricchezza “percepita” delle famiglie (i titoli di debito pubblico in loro possesso dovrebbero valere di più) sia migliorare i bilanci delle banche italiane, che di tale debito possiedono una quota sostanziale. Il primo effetto ricchezza non ridurrà di certo la domanda di consumi mentre il secondo, a nostro avviso molto più sostanziale come le recenti vicende MPS dimostrano, dovrebbe migliorare la situazione nel mercato del credito. In altre parole, una politica più credibile di riduzione del debito dovrebbe aumentare il valore di mercato dei titoli di stato, migliorando quindi il patrimonio delle banche e rendendo meno restrittivo il credit crunch che ha guidato la riduzione del PIL in corso. Da questo canale possiamo quindi attenderci una ulteriore spinta espansiva anche nel breve periodo. La conclusione è che non è irragionevole ipotizzare che una operazione di politica di bilancio del tipo da noi ipotizzato dovrebbe stimolare, anziché sfavorire, la crescita del PIL, anche guardando unicamente agli effetti sulla domanda aggregata.

Veniamo ora al secondo punto: è effettivamente possibile ottenere entrate straordinarie per 35 miliardi l'anno per 6 anni, per un totale di 210 miliardi? C'è molta incertezza sulla valutazione del patrimonio pubblico ma anche mantenendo stime molto conservative la risposta è sì. Occorre però avere una volontà politica ferrea nel portare avanti l'obiettivo. Questo obiettivo, in verità, è probabilmente quello su cui più forti saranno le resistenze da parte della casta e delle attuali élites politico-economiche, che hanno già iniziato il fuoco di sbarramento contro la ''svendita allo straniero''. E si capisce benissimo perché: basta rileggersi le intercettazioni di Belsito e con la sua intenzione di farsi mandare ''in Eni, però meglio alla Rai, alle Poste''. Se Eni, Poste e Rai, vengono privatizzate, dove si farano mandare i tanti Belsito che ancora allignano nella politica italiana? Bisogna infatti essere estremamente chiari su una cosa: per raggiungere l'obiettivo occorre procedere senza alcuna timidezza sia alla privatizzazione delle imprese in mano allo stato sia alla dismissione massiccia del patrimonio immobiliare pubblico. Chi pensa di cavarsela vendendo solo gli immobili, e magari solo quelli che interessano poco ai politici, sta solo facendo melina e non è serio

Ma quanto vale il patrimonio immobiliare pubblico, e quanto di esso è effettivamente vendibile? Di preciso non lo sa nessuno, ma le stime esistenti puntano a numeri sostanziali. Uno dei massimi esperti della materia è Edoardo Reviglio, che durante la scorsa decade ha curato il progetto di compilazione dello stato patrimoniale della repubblica. Nel corso di un seminario tenuto presso il Cnel lo scorso giugno, Reviglio ha riportato una stima del patrimonio ''fruttifero'' dello Stato di circa 700 miliardi. Una buona parte di questo patrimonio (risorse naturali, varie infrastrutture) non è cedibile e molti immobili sono occupati da amministrazioni pubbliche. La ''parte libera'' di immobili effettivamente vendibili è stimata intorno ai 42 miliardi (Reviglio parla nella sua relazione di un valore tra 40 e 50 miliardi). A questi si aggiungono gli alloggi di edilizia residenziale pubblica, il cui valore totale viene stimato in 150 miliardi. Anche in questo caso non tutti gli edifici sono vendibili, ma in molti casi gli immobili hanno smesso di avere caratteristiche di edilizia popolare e la loro vendita può rappresentare un miglioramento sia per lo Stato sia per gli inquilini (secondo la Corte dei Conti, citata da Reviglio, il 50-60% degli edifici non ha più caratteristiche di edilizia popolare). Difficile qui mettere un numero esatto. Il rapporto Astrid (purtroppo accessibile solo mediante password, non capisco bene perché) stima in 30 miliardi l'ammontare ottenibile dall'edilizia pubblica. Aggiungendosi ai 42 miliardi di parte libera questo porta il totale ottenibile mediante la dismissioni di immobili a 72 miliardi.

È possibile che tale cifra possa essere aumentata includendo altri immobili non inclusi nel rapporto Astrid o che Astrid stima possano essere dismessi solo in un periodo di tempo più lungo. Il punto principale in questo caso però non è se la valutazione è di qualche miliardo in più o in meno, dato che comunque sono stime molto aleatorie e che tali resteranno finché gli immobili non inizieranno a essere effettivamente venduti sul mercato. Il problema principale è che la proprietà immobiliare pubblica è estremamente dispersa e frazionata fra i vari enti pubblici. Per esempio, secondo Reviglio solo 7 miliardi, dei 42 di ''parte libera'' di immobili, appartengono allo stato centrale. Qui la parte del leone la fanno i comuni, con 25 miliardi. Questo significa in sostanza una cosa: qualunque processo di dismissione del patrimonio immobiliare non può che essere un lavoro di lunga lena. Si dovrà intrecciare con l'attuazione di una vera riforma federalista che dia incentivi (o, se questi non bastano, imponga) agli enti locali di vendere gli immobili e terreni liberi a fronte di riduzione del loro debito. Si dovrà inoltre collegare ad una operazione di rigorosa classificazione e valorizzazione del patrimonio pubblico, che elimini sprechi e inefficienze.

Tale processo è solo iniziato e prenderà tempo, ma può essere accelerato e i tempi non devono essere biblici. Il rapporto Astrid, per esempio, stima in 100-120 miliardi il patrimonio immobiliare vendibile solo da parte degli enti locali su un arco di 10 anni; un governo fortemente determinato può accelerare il processo e portarlo a compimento entro la prossima legislatura. Ed è probabile che alla fine si scopra che il valore degli immobili vendibili è ben più alto. Un rapporto meno recente dell'Istituto Bruno Leoni e della Fondazione Magna Carta, che si basava su stime precedenti dello stesso Reviglio, forniva una stima molto più sostanziosa del patrimonio immobiliare alienabile: 420 miliardi di euro (stima 2008). La differenza tra le due stime deriva semplicemente dal fatto che quella inferiore tiene conto soltanto degli immobili attualmente non utilizzati o sgomberabili facilmente, l'altra considera invece tutti gli immobili tecnicamente alienabili (cioè, per capirsi, esclude il Colosseo, la Torre di Pisa, il Quirinale …). Tenendo conto della possibile razionalizzazione dell'uso degli uffici pubblici (che andrà incontro alle resistenze degli attuali occupanti: al potere politico piace lavorare nei più prestigiosi edifici delle città italiane) e della possibilità di vendere immobili di pregio per ricollocare le funzioni pubbliche in immobili più periferici (da acquistare o affittare, escludendo operazioni di lease back che si sono rivelate in molti casi la grande madre di tutte le prese in giro), e tenendo conto del calo del mercato immobiliare negli ultimi anni, probabilmente la cifra realisticamente ottenibile sta da qualche parte nel mezzo: diciamo attorno ai 150-250 miliardi di euro. Nel mezzo sta il valore di 200 miliardi, che sembra un ragionevole ed abbondante punto di riferimento.

Come precedentemente osservato, gran parte di questi immobili sono in mano agli enti locali che, a legislazione vigente, non possono essere costretti a vendere. Questo è un ostacolo, e rende il processo più lungo, ma non è un ostacolo insormontabile. Una possibile via d'uscita può essere la costituzione di una serie di fondi chiusi, la cui gestione andrebbe delegata a terzi selezionati con procedure a evidenza pubblica e con remunerazione collegata alla performance (per esempio sotto forma di percentuale sulla differenza tra i valori di realizzo e un target price), in modo da procedere a una valorizzazione efficiente. Ma questi sono problemi su cui si può poi ragionare con più calma. Quello che ci interessa qui sottolineare è che l'obiettivo di 105 miliardi di dismissioni immobiliari complessive in 6 anni non dovrebbe essere impossibile da raggiungere, e anzi ci sono ragioni per pensare che si possa fare parecchio di più. Dato che comunque le cose non vanno fatte con fretta eccessiva e dato che abbiamo deciso di mantere una linea di prudenza, manterremo a 105 miliardi la stima delle dismissioni immobiliari, assumendo che si concentri negli anni tra il 2016 e il 2018. 

Restano da individuare 105 miliardi da realizzare tra il 2013 e il 2015. Lo studio Astrid stima in 30 miliardi la somma che può essere raccolta valorizzando le concessioni dello Stato. Occorre indagare meglio come si è giunti a tale cifra, ma per il momento assumiamo prudenzialmente che solo la metà, 15 miliardi, sia effettivamente realizzabile. Astrid, fra le fonti una tantum che ritiene si possano utilizzare, elenca un accordo fiscale con le autorità svizzere che ammonterebbe (al di là delle belle parole) all’ennesimo condono fiscale. Non avendo simpatia per i condoni, che il declino anziché fermarlo tendono ad accentuarlo, preferiamo escludere quei soldi dal conto. Un accordo fiscale con le autorità svizzere forse bisogna farlo, ma senza che assuma la forma del condono e senza che debba essere considerato un’operazione straordinaria (segnaliamo comunque che lo studio di Astrid prevede di raccogliere 13,5 miliardi tramite il condono; Brunetta, che evidentemente è persona molto ottimista, pensa di poterne raccogliere 25-35, anche se non si sogna di spiegare la fonte di tanto ottimismo).

Se 105 miliardi sono reperibili dalla vendita di immobilii e altri 15 da concessioni, per arrivare a 210 mancano 90 miliardi. Per reperirli, occorre mettere mano alle partecipazioni dello stato nelle imprese, arrivando fino alle partecipate degli enti locali. La stima che offre Astrid è di 40 miliardi, ma in questo caso è chiaro a nostro avviso che di tratta di una brutale sottostima. La cifra infatti include soltanto le partecipazioni quotate (ENI, ENEL, Finmeccanica, StMicroelectronics, stimate in 25-30 miliardi) ai valori di borsa correnti, oltre alle società da cedere alla Cassa Depositi e Prestiti (10 miliardi, ottenuti con la cessione di SACE, Fintecna e Simest). Quest’ultima proposta (perseguire e rafforzare la politica tremontiana secondo cui trasformare la Cassa DD.PP. in un’enorme holding finanziaria di stato sarebbe equivalente a “privatizzare”) è ancora peggio, molto peggio, della continuazione della politica dei condoni. Ragione per cui (ripromettendoci di ritornare alla prima occasione sulla questione Cassa DD.PP. e di come mantenerne in mano pubblica quel poco di utile che ha e può fare, privatizzando il resto) calcoliamo semplicemente che se 10 miliardi si possono raccogliere “trasferendo” proprietà industriali pubbliche alla Cassa DD.PP. certamente almeno 10 miliardi si possono raccogliere vendendo quelle stesse proprietà sul mercato. I 40 miliardi stimati da Astrid non includono la cessione del controllo. Una politica di vendita più aggressiva, che non abbia alcun timore di vendere a gente con religione, colore della pelle o nazionalità differente e che miri all'uscita completa dello Stato da imprese come ENI o ENEL (si può ragionare sul valore strategico di mantenere il controllo italiano di Finmeccanica, ma comunque è una piccola parte della torta), può portare a valori di realizzo nettamente più alti di quelli stimati da Astrid. Stimare ex ante il valore del  premio per il controllo è sempre complicato. Qui saremo un po' meno prudenti e stimeremo in 10 miliardi addizionali il potenziale introito.

Ci sono poi le società non quotate, una lista che comprende Poste, Ferrovie, e Rai e varie altre. Edoardo Reviglio riporta che il patrimonio netto di queste società è di 27,5 miliardi (si veda la slide 10), ma questo valore esclude le Ferrovie dello Stato. Se aggiungiamo a quanto discusso sino ad ora un'azione decisa sulla vendita di almeno alcune partecipate degli enti locali, in cui si annidano grosse inefficienze e odiosi favoritismi, riteniamo che l'obiettivo complessivo possa essere raggiunto nell'arco di tre anni. Anche per aziende che richiedono processi di riorganizzazione interna e liberalizzazione dei rispettivi mercati si può immaginare un orizzonte temporale di 6 mesi-1 anno a seconda della complessità del caso. Per essere onesti è ovvio che vari margini di incertezza sussistono, sia per l'entità del premio di controllo che può essere ottenuto per le società quotate sia per il valore concreto a cui si possono vendere le società non quotate, ma i dati indicano che il valore atteso degli attivi cedibili può essere più alto di 90 miliardi con alta probabilità. Le sorprese sono possibili, ma sia in negativo sia in positivo.

Possiamo quindi concludere. Sì, un altro rapporto debito/PIL è possibile, ed è anche possibile avere al contempo un fisco assai meno esoso nei confronti dei lavoratori e delle imprese. È raggiungibile anche in uno scenario abbastanza prudenziale in termini di valutazione del patrimonio pubblico cedibile e del livello di entrate straordinarie e persino assumendo che misure di questo tipo non abbiano, come invece tutto suggerisce dovrebbero avere, un effetto positivo sulla crescita economica. Se si scoprirà che il patrimonio cedibile vale più di quanto qui prudenzialmente stimato occorrerà applicare il massimo di pressione politica perché si venda comunque tutto il vendibile e si utilizzi il ricavato per accelerare ulteriormente la riduzione del debito. Se la crescità, grazie alle riforme, risulterà superiore a quella delle ipotesi FMI occorrerà di nuovo applicare il massimo di pressione politica per evitare che si usi il maggior gettito fiscale per evitare di tagliare le spese, puntando invece a ridurre ancor di più la pressione fiscale. Se terremo la barra dritta, i risultati possono essere non solo soddisfacenti, come nel nostro scenari prudenziale, ma eccellenti.

È, ripetiamo, questione di volontà politica. Trovare la maggioranza sociale e politica che porti all'imbocco deciso di questa strada sarà il compito dei prossimi mesi.

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Commenti

Ci sono 44 commenti

Finalmente il dettaglio. 

 

bene mettere le dismissioni immobiliari a partire dal 2016 perchè la faccenda è intricata. oltre a reviglio, ricordo anche un'intervista a visco che diceva più o meno le stesse cose aggiungendo che molti immobili erano beni strumentali tipo ospedali caserme ecc.

 

ok privatizzare rai poste ferrovie e partecipate. immagino che accanto alla vendita ci saranno anche provvedimenti volti a liberalizzare il mercato e regolare i conflitti d'interesse.

 

ENI, in misura minore ENEL, e finmeccanica. ho già scritto nell'altro post le mie perplessità al riguardo. Lanfranconi ne ha aggiunte altre che trovo sensate.

 

quello che continua a non convincermi del tutto è però altro. Oggi non è che ci siano tanti compratori in giro.nel report che ho precedentemente linkato ,si afferma che l'anno scorso nel mondo i ricavi da privatizzazioni sono stati 90 mld di $.  noi vogliamo farne 35 mld di euro con questa congiuntura.spero di sbagliare, ma mi sembra veramente ottimistico.Se i ricavi fossero tipo 20 mld di euro, che si fa? c'è un piano b?

Ci sono tante cose che possono andare storte. La crescita del PIL in qualche punto della prossima legislatura può essere nettamente inferiore a quella ipotizzata. Ci può essere un'improvvisa fiammata nei tassi d'interesse. L'Europa può chiederci di contribuire all'aiuto finanziario a qualche altro paese, come ha fatto per la Grecia. Qualche  paese del Nord-Africa o del Medio Oriente può esplodere creando un'emergenza umanitaria/militare. E poi il terremoto, una tremenda inondazione, le cavallette ....

Il rischio che le dismissioni e privatizzazioni non rendano quanto previsto c'è sempre. Abbiamo volutamente mantenuto una linea di valutazione prudenziale e abbiamo cercato di essere il più realisti possibile, ma nessuno può dire con certezza quanto vale un immobile o il premio di controllo di un'impresa finché non si prova veramente a vendere queste cose. Che si fa se gli introiti sono inferiori a quanto atteso? Lo stesso che si fa in tutti gli altri casi in cui le cose vanno peggio di quanto previsto. Si prende atto che gli obiettivi stabiliti, nell'arco di tempo stabilito, non sono raggiungibili e si cerca, in base alle nuove informazioni, di formulare un nuovo piano.

Al momento direi che se uno qualunque degli shock avversi sopra descritti si materializzasse sarebbe necessario posticipare nel tempo l'obiettivo di riportare il rapporto debito/PIL a livelli ragionevoli. Non è bello, ma neanche una tragedia. Se gli shocks sono positivi (crescita più alta, tassi più bassi, introiti da privatizzazioni e dismissioni superiori) invece si accelera.

Lasciami dire però che le preoccupazioni su quanto si può incassare dovrebbero secondo me essere di secondo piano rispetto alle preoccupazione per le resistenze politico/amministrative al progetto.

Il vero pericolo per questo piano è che i politici e tutto il mondo burocratico che dalla proprietà pubblica degli immobili e delle imprese traggono notevoli vantaggi si oppongano sia attivamente sia passivamente al progetto, creando enormi ostacoli a ogni passo (esempio: ogni progetto di dismissioni deve necessariamente iniziare da un censimento accurato del patrimonio pubblico, che richiede la collaborazione delle varie amministrazioni dello stato; che si fa se qualcuno inizia a ritardare?).  Rispetto a questo, il rischio di incassare (molto) meno di quanto ipotizzato mi pare decisamente di rango inferiore.

Niente sulle fondazioni bancarie? Ricordo un grazioso articolo di quasi un anno fa: Tassiamo le fondazioni bancarie. Io continuo a pensare che la fusione immediata di tutte le fondazioni in un'unica super fondazione, con l'unico scopo sociale quello di liquidare le quote, sarebbe una policy da esplorare. L'unico ostacolo politico che mi viene in mente, e cioé che alcune comunità locali si sentirebbero defraudate, secondo me non ha basi solide, sia dacché conosco esempi di fondazioni/banche fuse arbitrariamente con altre nonostante, certo con il senno di poi, stessero in condizioni migliori di quelle di buona parte del sistema bancario italiano odierno (la prima che mi viene in mente è la Sicilcassa, vedi in merito Dino Grammatico), sia dacché a quanto pare quando iniziano a scricchiolare tocca a tutti i contribuenti, non soltanto a quelli locali, mettere mano al portafogli per salvarle.

Alessandro, sono d'accordo con te che una tassa sulle fondazione bancarie può aiutare nell'obiettivo di ridurre il debito. Ho preferito non introdurla qua come tema di discussione, per concentrarmi su dismissioni e privatizzazioni. In questo momento preferirei che il dibattito si incentrasse su questo, dato che di carne al fuoco ne fornisce abbastanza. Ma sul tema della fondazioni  bancarie sicuramente torneremo.

Tutto bene, solo una grossa perplessità in questa frase:

"Trovare la maggioranza sociale e politica che porti all'imbocco deciso di questa strada sarà il compito dei prossimi mesi".

Come contate di fare? Solo col sito Fermare Il Declino?

Forse sarò troppo pessimista, ma il timore è che il compito si riveli sin da subito quasi impossibile a meno che non si abbia la potenza di fuoco del Nano di Arcore (televisioni, ecc) che spieghi con "parole semplici" alla popolazione la necessità di queste riforme.

 

La prima traccia che ho trovato del Blog di Beppe Grillo nella sua accezione contemporeanea è del 29 Gennaio 2005 (c'era altro, possibilmente affiine, non lo so, fino al 16 Gennaio di quell'anno).

Dal 2005 al 2013 ci sono 3 cicli elettorali, e bene o male il Blog di Beppe Grillo è nato più o meno ad una distanza simile dalle prime elezioni legislative nazionali (14 mesi) di quando è nato Fermare il Declino. 

Io inizierei non perdendomi d'animo prima di aver perseverato fino al 2022/2023, e poi considerando che oggi probabilmente le condizioni per riuscire a fare qualcosa di analogo sono, purtroppo, e ripeto purtroppo, fondamentalmente "migliori".

qual'è il valore totale delle compravendite sul mercato immobiliare italiano in un anno?  il rapporto immobiliare 2012 stima che sul mercato residenziale nel 2010 avvenissero compravendite per 102 mld di euro l'anno e su quello non residenziale per 17,5 mld.  Non so se siano stime affidabili e magari c'è qualcosa che resta fuori, si trovano qui  e qui.

Concentrare sull'arco di pochi anni (2016-2018) dismissioni per un valore di 105 mld  non rischia di svalutare  il parco immobiliare italiano, sia pubblico che privato? Se la cosa accadesse non sarebbe pericolosa?  non tanto perchè potrebbero non essere raccolti i 105 mld sperati, ma perchè potrebbe inasprire il problema del credit crunch, riducendo il valore dei beni maggiormente usati come garanzia.   

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Provo a rispondere da non esperto. Così eventualmente gli esperti mi correggono e vediamo se arriviamo ad una comprensione comune utile per i non iniziati.

In realtà il meccanismo proposto non porterà necessariamente ad un aumento delle compravendite immobiliari. Anzi, potrebbe anche non esserci alcuna compravendita.

Gli immobili sono conferiti ad un fondo. Quello che viene poi venduto sono le quote di questo fondo. Che hanno un valore legato al patrimonio conferito, ma non in modo diretto. Infatti un buon gestore potrebbe far rendere il patrimonio non vendendolo, ma destinandolo ad affitti e incassando pigioni che lo stato invece non incassa.

Anche le quote del fondo non dovrebbero necessariamente essere incassate subito. Si potrebbe vendere a tranche con un premio legato alle rivalutazione dei beni conferiti. Su questo per altro, non accennato nell'articolo, vi è il tema della eventuale variazione di destinazione d'uso che i piani regolatori del comune in cui gli immobili sono inseriti potranno dare.

Infatti quasi tutti i piani di dismissione non considerano vendite dirette (già fallite con l'ultima SCIP, Società Cartolarizzazione Immobili Pubblici) ma attraverso un fondo mobiliare e immobiliare creato ad hoc che dovrebbe acquistare dallo Stato beni mobili e immobili, valorizzarli e quindi rivenderli durante un periodo molto lungo o metterli a reddito.

Il problema si sposta nel trovare i sottoscrittori del fondo tanto che alcuni hanno pensato ad una sottoscrizione forzosa in luogo di una patrimoniale straordinaria.

 

Un altro problema potrebbe essere il seguente: alienando la crema dell'attuale garanzia al debito pubblico si diminuisce il volume del debito del valore dell'alienato  ma il debito residuo, ancora cospicuo, risulterebbe meno garantito e quindi non sarebbero da escludere richieste di interessi più gravosi ad ogni suo rinnovo parziale. (spread più alti)

 

Immagino che voi redattori di nfa e promotori di FilD ci abbiate già pensato, ma non si sa mai.

Una versione di questo articolo di Brusco (1+2) potrebbe essere proposta a la Voce?

I lettori di la Voce, che credo siano tanti, sono un bacino importante di potenziali sostenitori. Molti di loro sono certamente opinion leaders, che è una categoria da curare molto, forse non meno di personaggi pubblici influenti.

(Entrambi comunque direi, opinion leaders e figure pubbliche. E, fra gli opinion leaders, i blogger migliori -- con uno ci sto provando.)

Quando anni fa feci una comparazione tra le spese amministrative in Italia (nazione centralizzata per eccellenza, e quindi decentralizzata*) ed in Svizzera (azione federale per eccellenza e da secoli) avevo trovato dati molto diversi. 

A livello comunale avevo individuato in Italia spese del 50% superiori: il 10% delle spese comunali nel Ct Ticino erano classificate come "amministrazione" ed il 15% nel comune di Bologna, preso non so se a torto o ragione come best practice. Non so cosa sarebbe successo se avessi preso Palermo, dove in estate si pagano addetti per spalare la neve. A livelli totali (spesa comunale, cantonale e federale)  arrivavo al 125% di spese amministrative superiori (il 2% del PIL in CH, il 4.6% del PIL in Italia). Dati 1994.

Questo vuol dire che se riusciamo a condurre in porto un progetto di assetto federale, possiamo contare su un altro 2.6% in meno su PIL, a regime.

Naturalmente dovremmo anche considerare che federalizzare l'Italia avrà un costo.

Sarà cioè un investimento. Dovremmo spendere qualche cosa per arrivarci ma poi avremo a regime un 2.6% di spesa in meno, o almeno questo puo' (deve) essere il nostro obbiettivo.

 

Poi naturalmente dobbiamo considerare anche che le spese in un contesto federale, controllato dal basso, quindi le spese in comuni, municipalità, distretti, contee o provincie come vorranno chiamarle, saranno oggettivamente piu' basse di oggi senza per questo perdere in efficacia e qualità. Anzi ci sono ampi spazi per migliorare la qualità riducendo il costo e quindi esigendo meno tributi. Ma su questo tornero' prossimamente con un contributo, previsto verso metà settembre.

FF

*) nessuno spero si stupirà per l'apparente contraddizione tra stato centralizzato e decentramento.

 

 

Non so cosa sarebbe successo se avessi preso Palermo, dove in estate si pagano addetti per spalare la neve.

 

Storia falsa, le solite invenzioni per imboccare l'opinione pubblica di pregiudizi sui Siciliani, non scadiamo a quegli infimi livelli. Della Provincia Regionale di Palermo, e non parliamo del Comune, c'è tantissimo da criticare senza doversi inventare storie simili.

 

Sia l’evidenza storica che la teoria economica suggeriscono che l’effetto netto di un’azione di politica economica così articolata (graduale e annunciata riduzione spesa + riduzione imposte + riduzione debito e interessi sul debito) dovrebbe essere positivo sulla crescita. Questo è particolarmente vero nel nostro caso sia per il tipo di spesa pubblica (altamente improduttiva o, più generalmente, parassitica) che si intende tagliare sia perché i tagli permanenti alle tasse dovrebbero avere un effetto più espansivo di quello (opposto) di un taglio alla spesa.

 

Sarebbe meglio essere più prudenti nel richiamare l'evidenza storica e la teoria economica. E' tutto da dimostrare che stiano dalla sua parte. Anzi, si direbbe proprio l'opposto

Chi si appropria del suo nome, no. Rileggiti il paper, sta nell'ultimo numero di Economic Policy ...

buongiorno, premesso la condivisione di fondo del vostro programma e l'interesse sul merito (finalmente!) delle proposte, mi permetto di esprimere qualche dubbio più che motivato sull'entità e soprattutto sulla tempistica di assorbimento del patrimonio immobiliare di cui parla "l'obiettivo di 105 miliardi di dismissioni immobiliari complessive in 6 anni non dovrebbe essere impossibile da raggiungere".

Di professione mi occupo da oltre 10 anni di valutazioni immobiliari per una multinazionale del settore real estate americana operante anche in italia. ci siamo occupati e ci occupiamo anche di valorizzazione di immobili pubblici.

il take up previsto per alienazione diretta è assolutamente incompatibile con il volume assorbibile dal mercato, soprattutto in questa situazione di crisi de tenendo conto delle pregresse esperienze. il censimento e la valutazione del patrimonio soprattutto per i valori riferibili al 2008 (picco del mercato immobiliare) non è attuale ad oggi. le fonti dei valori sono disomogenee e spesso inattendibili (agenzia del territorio !!!) soprattutto in considerazione dello storico limite di trasparenza del real estate italiano.

ci sono inoltre due questioni di fondo che riguardano le strategie di valorizzazione/dismissione:

1) l'aspetto urbanistico = spesso gli immobili pubblici hanno per definizione destinazione urbanistica a servizi o per usi collettivi, quindi perchè il mercato abbia il minimo interesse al bene occorre procedere con varianti urbanistiche (questo se non intervengono vincoli sovraordinati e complessi come le belle arti o vincoli ambientali), pensare di lasciare agli enti locali (comuni e regioni) il compito di procedere alle varianti è semplicemente folle, basti pensare alle 20 normative urbanistiche regionali assurdamente complesse. Procedere con atto dello stato su tutto il patrimonio da alienare è l'unica soluzione con il rischio però di incorrere nella incostituzionalità (essendo l'urbanistica materia delegata alle regioni).

2) la redditività degli immobili = come noto un immobile "vacant" - a maggior ragione in questa situazione di mercato - è privo di valore reale. Un bene immobile vale in ragione del reddito da canoni di locazione che riesce a generare nel tempo diviso per un congruo tasso di capitalizzazione (yield) di mercato. Occorre poi considerare la durata del rapporto locativo ed il "rating" del tenant. Sarebbe quindi opportuno non porcedere ad una immediata alienazione dei beni che oggi sarebbe possibile nei tempi auspicati solo tramite una "vendita forzata" e quindi scontata di almeno il 30/40% rispetto all'open market value target. Meglio come qualcuno ha suggerito costituire un veicolo (fondo immobiliare) cui conferire i beni, reperire anche forzosamente i sottoscrittori delel quote del fondo e poi procedere in un primo momento ai cambi di destinazione d'uso, ai progetti di valorizzazione sulle destinazioni d'uso che garantiscano l'highest & best use del bene e parallelamente per gli immobili da manternere a redditto (edilizia residenziale pubblica, uffici pubblici e concessioni demaniali), procedere ad un adeguamento dei canoni a mercato con selettiva attenzione rivolta alla riduzione delle morosità (anche riformando l'assurda e sovietica legge sugli affitti italiana che è l'unica causa per cui non si sviluppa un mercato delle locazioni residenziale di interesse per investitori immobiliari come avviene invece nei paesi civili del nord europa).

Solo dopo (almeno 5 anni) si potrà procedere all'alienazione di pacchetti di immobili affidando le dismissioni a procedure ad evidenza pubblica internazionali, utilizzando advisor indipendenti che verranno remunerati in gran parte a success fee in base a quanto risuciranno a vendere OLTRE il target di valore prestabilito (in modo da evitare furbate di svendite per beccarsi provvigioni).

 

 

il take up previsto per alienazione diretta è assolutamente incompatibile con il volume assorbibile dal mercato, soprattutto in questa situazione di crisi de tenendo conto delle pregresse esperienze. il censimento e la valutazione del patrimonio soprattutto per i valori riferibili al 2008 (picco del mercato immobiliare) non è attuale ad oggi. le fonti dei valori sono disomogenee e spesso inattendibili (agenzia del territorio !!!) soprattutto in considerazione dello storico limite di trasparenza del real estate italiano.

 

 in forma nettamente migliore esprime le mie stesse perplessità

 

 

reperire anche forzosamente i sottoscrittori delel quote del fondo

 

capisco la motivazione di fondo, ma spero e sono convinto che questa non è la posizione di FiD

 

 

Un bene immobile vale in ragione del reddito da canoni di locazione che riesce a generare nel tempo diviso per un congruo tasso di capitalizzazione (yield) di mercato. 

 

spero non si stia suggerendo di vendere edifici dove ci sono uffici di enti, o caserme dei carabainieri ecc.ecc, per poi essere costretti a pagare il canone d'affitto.

Anche io ho dei dubbi sulla vendibilità del patrimonio immobiliare, per i motivi richiamati: innanzitutto la scarsa liquidità che c'è in giro (non nelle banche, attenzione), e poi per l'aspetto urbanistico (destinazione d'uso in primis), che essendo demandato ai Comuni può essere un ostacolo soprattutto mentale.

Peraltro sono convinto che senza il chiaro segnale che gli immobili inutilizzati saranno venduti le cose possano addirittura peggiorare (per gli immobili), per cui, mentre per la liquidità poco si può fare da un punto di vista normativo (imporre l'acquisto di quote di un fondo è degno dell'URSS),  dal punto di vista della destinazione d'uso si può fare qualcosa nel senso non di cambiarla ex-lege (incostituzionale), ma di fare la legge dicendo "nei comuni in cui sono presenti immobili sottoposti ad alienazione da parte della PA, la richiesta di cambio di destinazione d'uso è fatta dalla stessa PA, e i Comuni hanno 60 gg di tempo per negarla motivandola, oppure la stessa sarà concessa per effetto del silenzio/assenso"  Puoi anche incentivare l'approvazione scrivendo che "nel caso la variazione di destinazione d'uso sia invece approvata nei 60 gg il Comune riceverà il XZY % del ricavato della vendita e/o di compartecipazione al fitto"
Poi se la vuoi fare proprio sporca scrivi che"nel caso il cambio di destinazione d'uso sia negato, e la motivazione sia successivamente ritenuta insoddisfacente dal TAR, il Comune riceverà un taglio dell'80% dei trasferimenti statali,e gli Amministratori saranno obbligati in solido al pagamento delle spese processuali", ma questa forse sarebbe un'arma troppo potente.

 

Quindi rimarrebbe il problema degli sghei, ma lascio la soluzione ad altri.

Approfitto del tema per fare alcune domande, tanto per capire.

Ci sono due aspetti del "calo della spesa pubblica".

Il primo riguarda sprechi, malversazioni, corruzione, clientelismo, burocrazia eccessiva.

Qui mi pare chiaro, ma attendo conferma, che stiamo eliminando attività inutili, che non hanno alcuna utilità sociale, che le faccia il pubblico o che le faccia il privato. Eliminare questa spesa comporta una riduzione anche del PIL. Certe cose non vengono piu' comprate dallo stato, certe spese non si fanno piu', il personale addetto non ha piu' senso che segua determinate mansioni. A meno che non ci siano altre mansioni statali che chiedono risorse della stessa professionalità, quegli impiegati vanno licenziati. Altra cosa che riduce il PIL. Contemporaneamente si abbassa la pressione fiscale e questo mette a disposizione delle economia private (famiglie ed imprese) piu' risorse per comprare e assumere. Il risultato netto secondo voi è neutro, passivo o in attivo?

Il secondo riguarda le missioni strategiche dello stato. E cioè ripensare ai compiti dello stato, rivedendo quello che puo' fare il privato e quanto deve essere fatto dallo stato in prima persona. Qui stiamo parlando di servizi utili ed anche di chi li fa. Se non lo fa lo stato, allora qualcuno deve farli e li farà il privato. Quindi ad un calo delle spese statali corrisponde un aumento dell'iniziativa privata. Iniziativa privata che potrebbe essere piu' economica (se quella statale comprendeva sprechi) come anche piu' esosa (perché il privato deve guadagnare e fare utili). Allora forse un aumento mediamente corrispondente ma a mio avviso un aumento superiore, che comporta utili ed imposte. Ed anche una qualità superiore del servizio erogato. Quindi non solo lo Stato diminuisce le sue spese ma aumenta l'attività privata, il PIL e aumentano utili ed aumenta il gettito fiscale. Il che permette di abbassare le aliquote. Contemporaneamente la riduzione della spesa pubblica comporta anche in questo caso un calo delle necessità di gettito. In questo secondo caso il ritiro dello Stato da alcune attività fino ad ora seguite comporta un netto effetto moltiplicatore e quindi crescita. Il risultato netto per me è sicuramente in attivo.Siete d'accordo?

Senza nulla togliere all'imperativo categorico di eliminare qualsiasi spreco e spesa inutile, punterei tantissimo sugli interventi del secondo tipo, il che vuol dire riflettere sulle missioni dello Stato e trovare un nuovo equilibrio.

Io prediligo gli interventi del secondo tipo, pur pensando che nella prima opzione la diminuzione delle tasse possa andare a compensare la riduzione del Pil.

Credo che nella realtà bisognerebbe  fare entrambe le cose a seconda dei settori.

Entrambe le opzioni presentano serie difficoltà e rappresenterebbero svolte epocali per l'Italia. Nel primo caso è evidente il perchè: si parla di licenziamento degli statali. La seconda opzione sembra più facilmente percorribile dal punto di vista "sociale/politico" ma nella pratica è sicuramente più complessa. Sia a livello di consenso (pensiamo agli isterismi legati al referendum dell'acqua di alcuni mesi fa***), sia a livello di attuazione. Per funzionare è necessario che lo stato impedisca la formazione di monopoli privati, che la burocrazia e la legislazione siano riformate in modo da consentire ai privati di guadagnare ed agli utenti di far valere i loro diritti. Problemi che esistono già adesso, sia chiaro. Inoltre alla cessione dei servizi DEVE corrispondere una diminuzione della pressione fiscale. Si può fare, ma non è mai stato fatto. Sperem...

PS

***con isterismi NON mi riferisco certo alle documentate obiezioni di Marco Esposito, penso ai Grillini a Don Gallo ecc ecc

Premesso che non sono uomo di finanza e potrebbe esserci una condizione di non arbitraggio che rende le cose indifferenti e che io ignoro, avrei una preferenza per dismissioni massive magari attraverso un fondo ad hoc. Infatti se oggi   il valore facciale dei titoli di stato italiani è molto diverso da quello di mercato (-20% o più) non converrebbe ridurre il debito comprando titoli svalutati con dismissioni massive ora piuttosto che gradualmente scontando il fatto che i corsi dei titoli  aumenterebbero al migliorare del rapporto debito/pil ?

 

ni accodo anche i ai dubbi espressi sopra sulla fattibilità di una massiccia ed immediata vendita del patrimonio immobiliare. Porto un esempio banale basato sulla esperienza professionale. Negli ultimi ho curato numerosa aste delegatemi dal Tribunale per procedure esecutive. Ebbene su un numero complessivo di circa trenta procedure le assegnazioni sono state due e i lotto non assegnati erano spesso già al quarto/quinto incanto, con progressiva e notevole riduzione della base d'asta. E' bene considerare che questo stallo nelle vendite riguarda non solo immobili "ordinari" (case in condominio) ma anche immobili di pregio, dato che un palazzo nobiliare a Recanati la cui vendita era partita da una base di €. 3.000.000 dopo quattro incanti infruttuosi è oggi acquistabile a meno di €. 2.000.000. Insomma, non si vende facilmente

Un paio di spunti su fondi immobiliari e vendite di immobili:

a) il  caso di un fondo che proroga la propria scadenza di 15 anni sostenendo che le attuali prospettive del mercato immobiliare non consentono di liquidare il fondo nei prossimi 3 anni se non a prezzi fortemente scontati rispetto ai valori stimati correntemente. Naturalmente la società di gestione continuerà a percepire le commissioni per tutto il periodo quindi non andrà sicuramente a perderci. Va comunque aggiunto che in un mercato un po' più brillante le società di gestione preferiscono creare nuovi fondi (che vanno però collocati) e liquidare i vecchi, perchè ci guadagnano sicuramente di più.

b) cosa può succedere quando si compravendono asset illiquidi: vale tutto e c'è sempre un 'perito' disposto a certificare che il prezzo è corretto (soprattutto quando chi paga è il 'Pantalone' di turno).

 

Il problema principale, se si vogliono vendere gli attivi pubblici,  è far tornare in Italia i capitali che sono fuggiti all'estero, ovvero i soldi che erano investiti nei titoli di stato prima della scorsa estate.  All'interno, la liquidità per consentire un tale volume di 'privatizzazioni' come quello auspicate dal prof. Brusco, attualmente non c'è. Anche ricorrendo al credito bancario (teoricamente possibile solo in parte per problemi di diversificazione degli attivi bancari) si otterrebbe uno 'spiazzamento' di altre forme di investimento. E in ogni caso avrei molte perplessità su ulteriori finanziamenti bancari al settore immobiliare. 

Da un punto di vista circuitista, la riduzione del debito non è ne necessaria ne auspicapile. Anzi, il debito non è un problema a meno che non lo si faccia diventare tale per via politica.